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Dal confine orientale alla frontiera adriatica

I confini politici tra gli stati vengono spesso presentati come naturali, fissi e necessari – come la manifestazione tangibile della diversità e separatezza tra entità geografiche, culturali e linguistiche tra loro ben distinte. Una prospettiva storica di lungo periodo consente invece di cogliere come l’idea stessa di confine si sia articolata in forme e modi molto diversi nel tempo e nello spazio. Perfino quelle che oggi percepiamo come barriere fisiche insuperabili determinate dall’orografia – come le montagne, i fiumi e i mari – sono state vissute, nei secoli, non solo e non sempre come confini, ma anche (anzi, talvolta soprattutto) come spazi di comunicazione, di scambio e di transizione. 

Mare e montagna come confini nella storia

Sino all’affermazione del motore a vapore nell’Ottocento, le vie d’acqua sono state il veicolo più efficace per spostare persone e merci, garantendo una velocità di movimento in media di una volta e mezzo superiore al trasporto via terra. Non a caso, un grande impero dell’antichità come l’Impero romano si sviluppò e fiorì attorno a un enorme bacino navigabile come il mar Mediterraneo, all’epoca ribattezzato Mare nostrum o Mare internum. Ma nella storia umana, anche le montagne più arcigne non sono state solo una barriera e un confine tra stati e persone. Le comunità alpine dell’età moderna presentavano livelli di mobilità molto elevati, con massicce migrazioni stagionali degli uomini adulti verso i fondovalle nei periodi invernali. E per quasi tre secoli, il Libero stato delle Tre Leghe (l’odierno Canton Grigioni) prosperò a cavallo delle Alpi retiche – tra la Valtellina, l’Engadina e la valle del Reno – proprio grazie al controllo strategico dei passi di montagna, fondamentale snodo di comunicazione e di commercio. 

Le modalità attraverso cui il territorio viene organizzato e demarcato non sono determinate a priori dalla geografia, bensì invece il prodotto mutevole di un’interpretazione e di una rielaborazione sociale.  La storia del cosiddetto “confine orientale” italiano ne è un esempio paradigmatico. Come evidenziato anche dalle recenti linee guida per la didattica del Ministero dell’Istruzione, in un’ottica di lungo periodo, più che di “confine orientale” è preferibile parlare di “frontiera adriatica” per caratterizzare quell’area di passaggio, ma anche di ibridazioni e interconnessioni, che si estende dalla Valle dell’Isonzo e dal Golfo di Trieste lungo la sponda orientale del mare Adriatico fino alle Bocche di Cattaro. 

La frontiera adriatica: l’evoluzione di un confine

A lungo, tra Otto e Novecento, storici e politici dibatterono su dove andasse collocato l’antico confine orientale dell’Italia romana, senza arrivare a un consenso univoco. Lo stesso presidente statunitense Woodrow Wilson, durante le trattative di pace al termine della Grande guerra, propose un’ipotetica linea di demarcazione risalente all’età antica per delimitare il nuovo confine tra Italia e Jugoslavia nella penisola istriana. 

La ricerca otto-novecentesca di un antecedente romano del confine orientale non deve stupire. Per oltre mille anni, dall’invasione longobarda sino al Trattato di Campoformido del 1797, le regioni nordorientali della Penisola si articolarono secondo una geografia completamente diversa: la principale frattura fu allora non quella tra Est e Ovest, bensì quella tra le zone costiere (rimaste sotto il controllo bizantino prima, veneziano poi) e zone dell’entroterra (prima occupate dai Longobardi e quindi entrate nell’orbita di influenza carolingia e germanica), seguendo in ogni caso delle traiettorie non lineari, con un proliferare di enclavi, exclavi e particolarismi. Fu soltanto nell’Ottocento, parallelamente all’affermarsi dell’idea di stato nazione moderno centrato su principi di appartenenza nazionale variamente intesi, che emerse la concezione di confine orientale come linea di demarcazione netta (ma mai inequivocabilmente definita) dello spazio nazionale italiano.  

Il confine orientale novecentesco assunse così, per diversi decenni, un elemento di forte rigidità, diventando una realtà drammaticamente concreta. Si manifestò dapprima nelle trincee della Grande guerra, per poi farsi espressione delle dicotomie politiche-culturali tipiche del “secolo breve”: quella fascismo-antifascismo nel primo dopoguerra, quella nazismo-comunismo nella fase finale della seconda guerra mondiale, quella tra mondo occidentale e blocco socialista dopo il 1945. Da ultimo, i confini del secondo dopoguerra segnarono profondamente il territorio dell’Italia nordorientale, spaccando comunità e innalzando muri, come nel caso di Gorizia e della sua gemella Nova Gorica, fondata ex novo dal regime titino subito oltre la nuova linea di confine. 

Proprio l’esperienza Gorizia evidenzia come una lettura lineare e statica del concetto di confine finisca per oscurare la complessità delle interazioni umane. I primi anni dopo la pace di Parigi del 1947 videro certamente una rigida separazione tra il versante italiano e quello jugoslavo della cosiddetta “cortina di ferro”, che arrivò a dividere in due persino i cimiteri, come a Merna/Miren. Eppure sin dagli anni Cinquanta, in corrispondenza della mutata collocazione internazionale della Jugoslavia dopo la rottura tra Stalin e Tito, si aprirono spazi di permeabilità lungo il confine, consentendo scambi e contaminazioni ben prima dell’allargamento del progetto di integrazione europea a Slovenia e Croazia. Una serie di accordi sottoscritti tra il governo italiano e quello jugoslavo nel 1955, volti a incentivare il commercio a livello locale, funsero da volano non solo per la circolazione di merci (pasta, olio, dischi, riviste e vestiti dall’Italia alla Jugoslavia, carne e benzina nella direzione opposta), ma anche – sia pur con tutte le difficoltà e le resistenze del caso –di idee e di persone.

La storia della frontiera adriatica è quindi un caso emblematico di come i confini, lungi dall’essere una realtà naturale, siano anzitutto un costrutto umano: possono evolversi e modificarsi nel tempo, farsi più rigidi e addirittura reificarsi sotto forma di muri, fili spinati e trincee, ma anche divenire fluidi e trasformarsi in luogo d’incontro, o persino dissolversi e scomparire. 

I confini tra integrazione europea e governance globale

La pandemia da Covid-19, l’aggressione della Russia contro l’Ucraina e la guerra di Israele a Gaza di questi ultimi mesi hanno rappresentato una costellazione di crisi e cesure in grado di cambiare (o quantomeno di mettere in discussione) i paradigmi politici che conoscevamo e a cui facevamo riferimento fino a poco tempo fa. Sembra che i cambiamenti di oggi abbiano un grado di permeabilità maggiore rispetto agli sconvolgimenti del Novecento, anche a fronte della presenza di tecnologie oggi in grado di accelerare, enfatizzare e rendere visibile anticipatamente le trasformazioni in atto. Con ancora maggiore facilità, i cambiamenti di oggi attraversano i confini: non solo quelli geografici, ma anche quelli immateriali. I confini diventano quindi più porosi, fluidi, in grado di creare zone tra loro interconnesse: se pensiamo a fenomeni quali i cambiamenti climatici o la sicurezza nel mondo cyber, è possibile comprendere in maniera immediata quanto le grandi trasformazioni che stiamo affrontando siano trasversali ai confini, minacciandone al contempo l’integrità, ancor di più in un mondo oltremodo polarizzato, dove le alleanze sono ben più sfilacciate rispetto al contesto bipolare della guerra fredda (anch’esso comunque caratterizzato da variazioni e sfumature, come ci insegna il caso del “confine orientale” italiano).

Nuove sfide, nuovi confini?

La comunità internazionale ha naturalmente risposto alle sfide globali dei nostri giorni, anche a fronte dell’instabilità e dell’incertezza create dalla fine di un mondo diviso in due macro-blocchi ideologicamente contrapposti: è stato così dopo il 24 febbraio 2022, quando l’Unione europea, di concerto con l’alleato atlantico in ambito Nato, ha risposto compattamente all’attacco di Vladimir Putin contro l’Ucraina; ed è stato così anche, seppur con le dovute sfumature, quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha promosso un’interlocuzione con i governi nazionali per la definizione delle misure di contenimento della pandemia da Covid-19. Queste sfide hanno comunque creato, o ricreato, dei confini: quello tra l’est e l’ovest, più netto e militarmente concreto, o quello contro una malattia, minaccia impalpabile quanto letale, che ha però imposto fortissime limitazioni agli individui in termini di mobilità e spostamenti, un aspetto che rappresenta invece uno dei pilastri fondamentali dello spazio europeo.

Le esperienze dell’integrazione europea e la costruzione di forme di governo globale hanno promosso una maggiore apertura e fluidità dei confini tradizionali, oltre che un nuovo approccio orientato ad andare oltre e cercare di ricomporre le linee di faglia tra società e popolazioni. L’Europa è sempre stata un continente dai confini politici instabili, frammentata nel corso dei secoli in decine, se non centinaia di entità politiche, ma è anche stata al centro di grandi progetti di unificazione. Il processo di integrazione europea si è per questo sviluppato nel tempo su diversi livelli: politico, doganale e monetario. Questo mosaico rende dunque difficile definire dove si trovino i confini dell’Europa. L’integrazione ha inoltre seguito dinamiche ben diverse dalla semplice necessità di rafforzare o ridefinire i confini tra nazioni o regioni diverse, o di promuovere uno spazio più socialmente e culturalmente inclusivo allentando i confini all’interno di un determinato territorio nazionale o regionale. In modo sorprendente, tutte queste sfide hanno messo in gioco i confini esterni dell’Ue e dimostrano quanto l’integrazione europea sia influenzata non solo dagli sviluppi politici nei suoi Stati membri, ma anche dall’ambiente internazionale, come reso evidente dall’accelerazione nell’apertura a Est dopo il 24 febbraio 2022. 

La global governance contro il caos

Come per l’Ue, anche le organizzazioni internazionali rappresentano una cartina tornasole per la comprensione dei confini nel mondo e la loro evoluzione nel tempo: la governance globale può infatti influenzare la gestione delle frontiere attraverso accordi internazionali su immigrazione, commercio, sicurezza e cooperazione transfrontaliera. Analogamente, la definizione e la gestione dei confini possono influenzare l’efficacia della global governance, poiché le questioni transnazionali possono richiedere la cooperazione e la coordinazione tra diverse entità e attraverso confini fisici e concettuali. Ciò porta, in realtà, in alcuni casi alla differenziazione e alla regionalizzazione di alcune aree del globo: si sente di frequente parlare del Global South, operando una demarcazione e un confine netto tra ciò che è il mondo avanzato e i cosiddetti paesi in via di sviluppo. 

Tuttavia, la società internazionale odierna, interdipendente, dove individui, comunità, nazioni e sistemi sono fortemente interconnessi e in cui i cambiamenti possono provenire anche da attori non statali, sembra sentirsi sempre più costantemente minacciata da fattori endogeni ed esogeni che possono mettere in pericolo la sicurezza degli individui, spingere verso il caos, la guerra e l’anarchia. In questo contesto, i confini fisici diventano la linea del fronte utile a garantire la sicurezza: le comunità sono spinte a stringersi attorno alla costruzione di nuove barriere, nuove regole, nuove procedure. Eppure, questo non basta a fermare minacce non necessariamente tangibili e che attraversano confini porosi. 

Oggi sono le stesse narrazioni dell’integrazione europea e del mondo libero dopo la caduta del muro di Berlino a essere messe a dura prova da nemici e da sfide che noi dichiariamo fuori dai nostri confini: ecco perché è ancora più importante interrogarci su come l’integrazione europea e la governance globale possano offrire delle soluzioni e degli spiragli per una pace mondiale più duratura.

G7 economia Parla Gregorio De Felice, Chief economist & Head of Research, Intesa Sanpaolo

Sono sempre più evidenti i segnali di frammentazione degli scambi commerciali e finanziari: la contrapposizione politica e commerciale tra Stati Uniti e Cina si è inasprita, mentre tensioni e conflitti dilagano in più aree. Quale può essere il contributo di un’organizzazione come il G7?

Temo che su questi argomenti il G7 possa avere un ruolo molto limitato e circoscritto a enunciazioni di principio, come l’importanza del libero scambio, la lotta al protezionismo o impegni a sostenere proposte di mediazione dei conflitti in corso. I summit del G7 molto raramente hanno impresso significativi passi in avanti per quanto riguarda le politiche commerciali o la fine dei conflitti. Questi ultimi sono temi che normalmente seguono trattative bilaterali o, nel caso delle guerre, con uno o più mediatori relativamente vicini ai paesi in conflitto. 

Nel sistema monetario internazionale, le diverse valute e le infrastrutture di pagamento e di mercato hanno acquisito, soprattutto dopo l’imposizione di sanzioni finanziarie alla Russia, una valenza strategica che va oltre la sfera economica. Cosa dobbiamo aspettarci?

Ci sono diversi driver fondamentali che determinano l’uso internazionale delle valute: stabilità macroeconomica (bassa inflazione, deficit fiscali contenuti, politiche monetarie prudenti), profondità e liquidità dei mercati finanziari così come dimensione e forza economica del paese emittente, rete di accettazione globale di una valuta, infrastrutture di pagamento, fiducia nella politica monetaria e nelle sue istituzioni finanziarie, dinamiche geopolitiche e potere economico del paese che emette una determinata valuta.

Sulla base di questi requisiti, ci si può attendere che le valute di economie stabili e influenti, come il dollaro statunitense e l’euro, mantengano ancora per molti anni un ruolo preminente, mentre altre valute potrebbero emergere gradualmente in risposta a cambiamenti geopolitici e alla diversificazione delle riserve valutarie, ma soltanto se ci sarà un parallelo sviluppo dei mercati finanziari.

L’innovazione tecnologica nelle infrastrutture di pagamento, come le valute digitali delle banche centrali (CBDC), potrebbe rimodellare ulteriormente il panorama monetario internazionale.

Cosa può fare il G7 per affrontare il problema dell’indebitamento dei paesi in via di sviluppo che, secondo molti analisti, rischia di rivelarsi uno dei maggiori fattori di instabilità per il sistema finanziario internazionale?

Il forte debito dei paesi in via di sviluppo (PVS) non è uno dei principali rischi per il sistema finanziario. I membri del G7 possono però fare molto per i PVS, ad esempio, promuovendo e facilitando la ristrutturazione del debito, negoziando termini più favorevoli che migliorino le condizioni di rimborso.

Un’altra strada può essere quella di aumentare il sostegno finanziario attraverso prestiti agevolati e sovvenzioni, canalizzando risorse attraverso istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. A tal scopo sarebbe anche utile rafforzare le risorse dei programmi di assistenza tecnica per aiutare i paesi in via di sviluppo a gestire le crisi economiche.

In quest’ambito, molto importante è aiutare i PVS nella gestione delle finanze pubbliche, la trasparenza fiscale e la capacità di attrarre investimenti, supportando anche la costruzione di capacità istituzionali per migliorare la governance economica.

E infine è importante il principio di incentivare investimenti in infrastrutture sostenibili e progetti di sviluppo che possano stimolare la crescita economica e aumentare le entrate fiscali. Anche la promozione di partenariati pubblico-privati per mobilitare risorse aggiuntive e garantire il trasferimento di conoscenze e tecnologie sarebbe di grande aiuto.

Uno dei compiti principali dei paesi del G7 è di trovare un accordo sulle priorità della governance economica in grado di rassicurare gli operatori e i mercati globali. Dopo il Vertice tenutosi in Puglia che prospettive si aprono in merito?

Indipendentemente dall’esito del vertice a Borgo Egnatia, la situazione geopolitica è andata complicandosi. I due più grandi paesi dell’Unione europea (Francia e Germania) hanno visto sconfitte le coalizioni di governo in quelle che più che elezioni europee si sono dimostrate referendum nazionali a favore o contro i governi di 27 Stati membri.

La debolezza politica dei due maggiori leader del Consiglio europeo suscita dubbi sulla possibilità di forti progressi sulla strada dell’integrazione europea e sulla risposta alle grandi sfide che l’Unione si trova oggi ad affrontare, come il gap tecnologico nei confronti di Stati Uniti e Cina, gli investimenti necessari per la transizione ecologica o la sicurezza e la difesa comune.

A ciò vanno aggiunte le incertezze sull’esito delle elezioni anticipate nel Regno Unito e, ovviamente, le elezioni presidenziali americane del 5 novembre. Quindi uno scenario complesso in cui prevalgono i punti di domanda e che certamente non favorisce accordi multilaterali.

Un nuovo mercato interno per la Ue

Lo scorso 12 giugno L’Istituto Affari Internazionali (IAI) ha ospitato Enrico Letta per la presentazione del suo rapporto sul rilancio del mercato interno europeo. All’incontro ha preso parte anche Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari europei, in una conversazione con il Direttore Nathalie Tocci, aperta da un’introduzione del Presidente Ferdinando Nelli Feroci.

TOCCI: Questo rapporto torna alle origini per rilanciare il progetto europeo grazie a una serie di misure per rendere il mercato unico più integrato, solidale e veloce. Qual è la sua storia? Quali sono le vere priorità?

LETTA: Ho intrapreso questo esercizio in nome di Jacques Delors, fondatore del Mercato unico (MUE), che mi ha detto tre cose:

  • Un nuovo mercato interno deve interiorizzare la nuova dimensione geopolitica: all’epoca della creazione del Mercato unico, Cina e India rappresentavano il 4% del Pil globale, oggi il 20%. All’epoca, i grandi paesi europei erano i giganti globali insieme a Stati Uniti e Giappone. Oggi, sono potenze medie dentro un mondo gigantesco.
  • Energia, telecomunicazioni e mercati finanziari sono i tre settori che all’epoca non furono integrati perché si pensava che la dimensione nazionale fosse sufficiente. Oggi non è più così. Si stima che ogni anno 300 miliardi di euro di risparmi europei finiscano nel mercato dei servizi finanziari americani: le imprese americane si rafforzano con i nostri soldi per poi acquistare le nostre imprese con i nostri stessi risparmi. La questione dell’integrazione del MUE non è dunque ideologica: non propongo di eliminarele bandiere nazionali o di cambiare i trattati, ma di aumentare la competitività europea.
  • Infine, Delors diceva che non esiste il MUE senza coesione, coerenza e politiche di cooperazione efficaci. La proposta per le piccole-medio imprese è un punto chiave del rapporto: l’idea si basa sulla creazione di un 28° Stato virtuale con un suo diritto commerciale per poter dotare ogni impresa europea e non di tale diritto. Questa proposta offre un passe-partout agli investitori, consentendo loro dioperare in qualsiasi diritto commerciale tramite uno solo. Questo è importantissimo per le piccole-medio imprese, che non possono gestire tutti i diversi diritti europei. Infine, nel rapporto propongo una quinta libertà: beni, mercato, persone e servizi sono idee del 20° secolo. Ne manca una: l’intangibile, l’innovazione.

TOCCI: Da questo rapporto si evince che competitività e integrazione sono due facce della stessa medaglia. Reputi corretta quest’interpretazione?

FITTO: Penso che questo rapporto abbia un valore importante: impone di programmare delle soluzioni, evitando di intervenire sull’onda dell’emergenza. Un esempio è stata la crisi energetica: ci siamo svegliati il 22 febbraio 2022 e ci siamo accorti di essere dipendenti dalla Russia. Siamo stati allora non solo costretti ad annullare questa dipendenza sull’onda lunga dell’emergenza, ma abbiamo anche mal utilizzato le risorse a nostra disposizione, sebbene fosse necessario. Penso, ad esempio, alla nostra prima legge finanziaria: 32 miliardi di euro di disponibilità, di cui 21 miliardi spesi per il sostegno alle imprese e alle famiglie per il pagamento delle bollette. Quante altre cose si sarebbero potute fare.

Un altro grande tema è l’autonomia strategica, strettamente legata alle questioni del mercato interno e decisiva per l’Europa. Essa è necessaria per correggere molte scelte passate che hanno causato numerose delocalizzazioni dei sistemi produttivi, senza porsi il problema dell’approvvigionamento. Oggi, il tema dell’autonomia strategica ripropone con forza l’esigenza di riportare in Europa la filiera produttiva. Direttamente collegato a questo, è il tema della coesione, spesso visto con superficialità, persino dal nostro Paese che ne è uno dei principali beneficiari: decine di miliardi di euro per ogni ciclo di programmazione sono fondamentali per immaginare soluzioni non solo in Italia, ma in tutti i paesi beneficiari. La finalizzazione di queste risorse rappresenta una grande opportunità. Come governo, siamo impegnati nella conversione del decreto legge di riforma della politica di coesione, per raccordare l’uso di queste risorse con quelle del PNRR e individuare interventi strategici e strutturali che possano aiutare a raggiungere i nostri obiettivi.

Infine, un altro tema del rapporto che considero fondamentale è quello del mercato del lavoro. È essenziale affrontare la questione di alcune uniformità di sistema a livello europeo per essere competitivi con gli altri giganti economici e utilizzare bene le risorse disponibili. Spesso ci preoccupiamo di come recuperare le risorse, ma non ci chiediamo come spendiamo quelle già disponibili.

Tutti questi aspetti entrano a far parte di una riflessione più ampia: in questo anno e mezzo, non solo in Parlamento Europeo ma anche come Ministro degli Affari Europei, ho partecipato a diversi consigli europei sul tema dell’allargamento. Al di là della giusta accelerazione geopolitica, l’allargamento pone temi fondamentali come la coesione e l’agricoltura, due delle voci più rilevanti del bilancio europeo, aumentando la complessità delle sfide e ponendo il tema delle risorse. Per fare tutto ciò, è necessario mettere in campo molte risorse. In questo caso, cito come esempio di buona pratica il nostro PNRR: la riuscita dei piani nazionali di ripresa e resilienza più importanti, come il nostro, è una partita rilevante, utilizzabile come base per le politiche emergenti dal rapporto, che necessitano di investimenti importanti. La dimensione europea è fondamentale, ma senza perdere di vista le peculiarità dei singoli Stati membri. I punti di convergenza per agevolare gli Stati membri verso quel 28° Stato virtuale che propone il rapporto devono essere realizzati con un’azione mirata, tenendo conto dei diversi sistemi produttivi di ciascun Stato membro.

Nel caso specifico dell’Italia, la sua azione nel Mediterraneo e il suo rapporto con l’Africa possono rappresentare una grande opportunità per l’Europa.La drammaticità degli eventi in Ucraina rendono questo tema ancora più rilevante, evidenziando la necessità di recuperare una presenza europea nel contesto africano e valorizzare la centralità del ruolo del Mediterraneo.Questo è un elemento fondamentale e una visione esterna dell’approccio europeo, decisivo anche rispetto alle proiezioni collegate al tema del mercato interno.Tra tutti gli elementi, uno dal mio punto di vista rappresenta la cornice dentro cui si sviluppa questa discussione: la demografia. Questo è un tema sul quale l’Europa deve fare i conti per la definizione delle strategie future nei singoli ambiti di intervento. Sono convinto che il governo italiano potrà dare un contributo molto importante nell’attuazione di questi obiettivi.

TOCCI: La crescente competizione geo-economica tra Stati Uniti e Cina – che si concentra su tecnologie verdi e digitali, elementi cruciali per l’Europa – può essere affrontata in due modi: con un bieco protezionismo o con misure per rilanciare la produzione interna dell’Europa. In che modo le tue proposte si collocano in questo contesto? Una seconda riflessione riguarda invece la guerra nel nostro continente, che ha rimesso al centro dell’agenda l’allargamento dell’Ue. Quest’ultimo può essere affrontato con uno spirito esclusivamente geopolitico e securitario o come stimolo per approfondire riforme interne. Come questi fattori e dinamiche rendono più o meno fattibili le tue proposte?

LETTA: In Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Grecia c’è una forte spinta per un nuovo Next Generation EU (NextGenEU), mentre in altri paesi come Finlandia, Paesi Bassi e Germania il dibattito è focalizzato su come non fare altro debito comune.Abbiamo deciso di fare la transizione verde, giusta e digitale, che richiede ingenti risorse finanziarie. Draghi ha stimato che saranno necessari 500 miliardi di euro all’anno per il prossimo decennio. C’è una divergenza di opinioni su come reperire queste risorse: il sud Europa pensa a un nuovo Next Generation EU, mentre altri pensano a metodi privati. 500 miliardi di euro sono la distanza tra l’ambizione dell’Europa, le attese dei cittadini e il potenziale backlash di questa vicenda. Questo rappresenta il cuore del rapporto: come riuscire a far funzionare un compromesso tra l’utilizzo di risorse private e pubbliche – che è il vero problema di NextGenEU, tutto basato su risorse pubbliche e domestiche. Abbiamo bisogno di operazioni transfrontaliere e di fare leverage con risorse private. L’integrazione dei mercati finanziari europei è fondamentale per contrastare la frammentazione attuale, che penalizza il flusso di capitali e favorisce la loro migrazione verso mercati esterni, come quello statunitense. Fino ad oggi si è pensato all’integrazione come legata unicamente alla finanza. Il tema è come collegare l’integrazione finanziaria a obiettivi di interesse pubblico, come il finanziamento della transizione ecologica. Attraverso gli incentivi mirati si può essere più attrattivi e spostare risorse private verso la transizione. Propongo questo perché è l’unico modo di convincere scandinavi, tedeschi, olandesi ad aprire alle risorse pubbliche.

Un altro punto cruciale è la difesa europea. I paesi più riluttanti a contribuire all’European Fiscal capacity sono quelli più vicini alla frontiera con la Russia. Questi paesi stanno chiedendo una difesa comune europea, consapevoli che ciò richiede risorse condivise. Nel rapporto ho evidenziato due cifre principali: l’80% dei materiali inviati in Ucraina è acquistato con fondi dei taxpayer europei prodotti fuori dall’Europa, creando posti di lavoro altrove. Negli Stati Uniti, solo il 12% delle spese per la difesa va a creare posti di lavoro fuori dal paese. Questo evidenzia il perché la partita della difesa è così importante.

Un tema che affronto alla fine nel rapporto è la futura apertura di un transatlantic single market. Siamo troppo lontani con gli Usa, e Cina e Russia sono esempi di come la distanza transatlantica sia negativa. Il mercato unico europeo ha, inoltre, una dimensione sociale significativa. La mobilità interna europea è asimmetrica e senza biglietto di ritorno né circolarità: da est a ovest e da sud a nord, causando lo spopolamento di alcune regioni e Paesi. Questo squilibrio demografico rischia di creare aree desertificate e prive di servizi essenziali, minando la coesione sociale dell’Europa.

Chiudo con l’allargamento dell’Ue: anche nei paesi più a favore dell’Ucraina si hanno dubbi sull’adesione del Paese all’Ue. L’Ucraina nell’agricoltura gioca in un campionato a parte e nel rapporto parlo di un “enlargement solidarity facility“, volto a sostenere le regioni degli attuali Stati membri che potrebbero perdere risorse a causa dell’ingresso di nuovi paesi più poveri. Il meccanismo del futuro allargamento dovrà basarsi su un accompagnamento della transizione senza far perdere troppo ad altri stati, un processo che dà grande forza ma che va gestito con grande attenzione. La logica del 2004 va abbandonata: l’allargamento del futuro sarà gestito sul “chi è pronto entra”, anche se si trattasse di un nuovo paese ogni due o tre anni.

TOCCI: Il mercato unico del capitale e l’integrazione in materia di difesa sono due temi fondamentali. Sappiamo infatti che la difesa è l’area in assoluto in cui la sovranità tradizionalmente è mantenuta più gelosamente.

FITTO: Penso che l’approccio dei prossimi mesi non possa che essere quello di provare ad avere un’Europa che faccia un po’ meno cose, ma fatte bene e meglio. Il tema della difesa è un tema centrale: è evidente che su questo bisogna costruire una politica europea.

La guerra è un dato di fatto al quale assistiamo. Poi ci sono le conseguenzesul fronte della stabilità economica e sociale. L’investimento sulla difesa non è quindi un investimento per la guerra, come spesso sentiamo dire, perché siamo tutti per la pace. È chiaro che però, per realizzare la pace, per avere tranquillità e stabilità, devi investire sulla difesa, che ti consente di avere quella sicurezza fondamentale rispetto a tutti gli elementi necessari.Quindi è chiaro che la strategia della difesa è anche, e soprattutto, una strategia industriale, perché il tema è cosa noi investiamo in Europa, con quali modalità e soprattutto come realizziamo gli investimenti. Se noi decidiamo a livello europeo una strategia e poi non abbiamo assicurato la filiera produttiva all’interno del contesto europeo, cioè l’autonomia strategica, facciamo un autogol. Questo vale per la difesa, ma vale, per esempio, anche per tutto il tema del Green Deal e delle rinnovabili, perché noi facciamo una grande quantità di investimenti e poi andiamo ad acquistare quasi tutto all’estero. È dunque necessario individuare quelli che sono i pochi grandi obiettivi e capire come ricostruire la filiera produttiva interna in un equilibrio europeo tra gli Stati membri: è chiaro che ognuno porta un suo know-how, bisogna perciò essere bravi ad evitare che ci siano sovrapposizioni o contrasti, elementi senza rinunciare a innovazione e competitività. L’Italia può giocare su questi temi un ruolo fondamentale e importante perché ha delle competenze e delle risorse notevolissime in questo contesto.

È chiaro che ci sono paesi, i Baltici in particolare, che oggi vivono un momento di forte tensione. Si potrebbe allora iniziare con alcuni investimenti comuni dedicati alle emergenze. Questo non significa associazione con la guerra,ma è il sistema degli investimenti settoriali, un sistema di piccole e medie imprese che ruotano intorno a quel contesto. Significa andare a rivedere e a riformare molte professionalità perché le transizioni, quella verde e quella digitale, hanno bisogno anche di investimenti sul fronte delle competenze. Il grande tema delle competenze è un tema centrale.Per esempio, ci sono situazioni per le quali la domanda che viene dal mondo del lavoro non trova un’offerta adeguata. Quindi c’è bisogno di andare a investire in questo contesto. Tuttavia, il tema delle competenze riguarda non necessariamente, come spesso si banalizza, la pubblica amministrazione – che pure deve fare molti passi in avanti in questo – ma l’intero sistema economico e sociale di un paese.

Quindi l’investimento sulle competenze è fondamentale e questo riporta al mercato del lavoro che ha bisogno di una visione di questo tipo. L’errore che non si deve fare più nel futuro è quello di decidere di avviare un investimento senza porsi il problema di chi, come, quando viene realizzato e che effetti produce.

Certamente, la risposta all’emergenza è essenziale, ma poi sono necessari altri elementi, come per il PNRR o il NexGenEU. In quest’ultimo caso, ci sono paesi che non vogliono nemmeno sentir parlare di un ulteriore Next Generation. Riuscire a mettere in campo elementi che possano convincere tutti gli Stati membri a ripetere meccanismi simili al NextGenEU dipenderà da due fattori.Il primoè quello che dimostra, in modo concreto, che se si scelgono ambiti di intervento che rafforzano la dimensione europea (come la difesa), essi genereranno una risposta in termini di sicurezza per tutto il sistema. Il secondo è quello di dimostrare che le risorse di cui si dispone sulla base di un debito comune – come il Next Generation e il PNRR – riescono a realizzare interventi in grado di dare un impatto positivo. È oltremodo necessario, però, che questi meccanismi si adeguino agli scenari: non si può, come è stato in Europa per molti anni, programmare la coesione sulla base dei dati economici del 2020, chiudere dopo 2 anni l’accordo di partenariato su come spendere le risorse a disposizione e trovarci oggi che ancora dobbiamo iniziare a farlo. Perché quando lo faremo sarà su presupposti che non esistono più: il mondo è cambiato nel frattempo. C’è bisogno di quella flessibilità che consente di intervenire rapidamente sull’evoluzione dello scenario e quindi sulla capacità di intervenire concretamente.

Ecco perché il tema dell’autonomia strategica è fondamentale: se, per esempio, alcune situazioni di grande tensione dovessero degenerare in alcune parti del mondo, quali saranno le conseguenze economiche? In alcuni casi potrebbero essere ancora più gravi e pesanti di quanto non lo siano state con l’invasione dell’Ucraina. Ci sono una serie di temi che hanno bisogno di quella visione e programmazione e, soprattutto, di una rapidità d’azione che l’Europa a 27 così come organizzata non possiede. Dobbiamo realizzare degli strumenti comuni che ci portino in questa direzione, che consentano al sistema economico di poter utilizzare bene e al meglio queste risorse in funzione dei quadri che cambiano. Su questo secondo me il rapporto offre spunti importanti. Dobbiamo cercare però di far sì che parti importanti del rapporto possano già rientrare nell’agenda strategica come indicazioni di partenza per i prossimi anni.

L’Italia e i Top Jobs Ue

La prima fase della partita delle nomine ai vertici delle istituzioni dell’Ue si è chiusa rapidamente al Consiglio europeo del 27 giugno, come previsto alla vigilia. Ursula von der Leyen, candidata dai popolari europei, è stata designata come Presidente della Commissione; l’ex Primo Ministro portoghese Antonio Costa, candidato dei socialisti e democratici, è stato eletto alla presidenza del Consiglio europeo; e si è raggiunto un accordo sulla nomina della Prima Ministra estone Kaja Kallas, candidata dai liberali, per l’incarico di Alto Rappresentante per la Politica estera. Fa implicitamente parte di questo pacchetto anche la conferma di Roberta Metsola alla Presidenza del Parlamento europeo, anche se su questo incarico la decisione spetta ovviamente al Parlamento stesso.

Nessuna sorpresa, ma piuttosto la conferma delle intese raggiunte alla vigilia dai sei negoziatori che avevano concordato il pacchetto delle nomine per conto dei popolari, dei socialisti e democratici e dei liberali, le tre famiglie politiche europee che – sulla base dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo – hanno dimostrato di poter contare su una maggioranza, anche se meno solida che nella precedente legislatura. 

Von der Leyen a rischio, apertura a destra per evitare i franchi tiratori?

Ma la partita delle nomine non è ancora conclusa. Mentre infatti la presidenza del Consiglio europeo è ormai acquisita, almeno per i primi due anni e mezzo del mandato, diverso è il caso della Presidenza della Commissione (e, seppur limitatamente, anche dell’incarico di Alto Rappresentante). Von der Leyen, attualmente indicata solo dal Consiglio europeo, dovrà infatti essere ora eletta dal Parlamento europeo in occasione della plenaria in programma a metà di luglio, con un voto a scrutinio segreto, per il quale è necessaria la maggioranza assoluta degli euro-parlamentari (361 voti su 720 membri dell’emiciclo). Sulla carta popolari, socialisti e liberali dovrebbero poter contare su 399 voti. Ma, come confermato da precedenti esperienze, c’è il rischio di un certo numero di franchi tiratori. Da qui l’esigenza per Von der Leyen di cercare di allargare la maggioranza, evitando peraltro di cadere nella trappola dei veti incrociati.

Successivamente i governi nazionali designeranno i membri della Commissione, cui la Presidente affiderà un portafoglio, e un’indicazione delle loro competenze. I Commissari designati a loro volta dovranno essere esaminati e approvati dalle rispettive Commissioni del Parlamento. Infine, la Presidente si presenterà nuovamente di fronte al Parlamento (probabilmente alla plenaria di ottobre) per presentare il suo programma di lavoro e ottenere su questa base un secondo “voto di fiducia”, condizione necessaria per l’insediamento formale della nuova Commissione.

La Meloni davanti a un bivio

Come noto, la prima fase di questo processo si è chiusa con strascichi polemici e rimostranze, soprattutto in Italia. Giorgia Meloni, sentitasi esclusa dall’accordo su queste nomine, ha protestato pubblicamente con un duro intervento in Parlamento alla vigilia del Consiglio europeo. La leader di Fratelli d’Italia ha affermato che la decisione assunta autonomamente dai rappresentanti dei popolari, dei socialisti e dei liberali europei era inaccettabile sia nel metodo, che non avrebbe tenuto conto del risultato elettorale – che aveva fatto segnare una crescita dei partiti della destra che non erano stati consultati su quell’accordo – sia nella sostanza, perché quella intesa era stata raggiunta senza coinvolgere l’Italia, uno dei pochi Paesi europei in cui il voto per il Pe aveva premiato il governo e la maggioranza che lo sostiene in Parlamento. 

Per rafforzare questo messaggio, Meloni, in occasione del Consiglio europeo che ha confermato le nomine, si è astenuta sulla Presidente della Commissione e ha votato contro il Presidente del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante. Una decisione clamorosa, senza precedenti nella storia della partecipazione italiana all’Ue, ma anche una manifestazione di dissenso ininfluente sull’esito di quelle decisioni, che potevano essere adottate a maggioranza qualificata. Una sorta di auto-esclusione da questo passaggio che segna l’apertura della legislatura, con una decisione in cui Meloni ha dato l’impressione di non distinguere tra le sue responsabilità di leader di partito e quelle di capo di governo di uno dei Paesi membri più importanti dell’Ue. Come capo di governo aveva infatti finora mantenuto nei confronti dell’Ue un atteggiamento pragmatico, forse molto transazionale, ma tutto compreso costruttivo.

Ora nella prospettiva del voto sulla Presidente e della formazione della nuova Commissione, per Meloni si pone un delicato problema di scelte. Potrebbe infatti far prevalere l’interesse di partito e decidere di porsi alla testa delle varie (ed eterogenee) formazioni della destra presenti nel Parlamento europeo, adottando una linea di  opposizione dura e pura nei confronti dei nuovi vertici delle istituzioni dell’Ue (anche per non lasciare spazio sul fronte interno a Salvini che la incalza su questa linea). Potrebbe quindi coerentemente annunciare pubblicamente il voto contrario degli euro-parlamentari di Fratelli di Italia alla elezione di Von der Leyen.  

O, in alternativa, potrebbe far prevalere l’interesse nazionale e rientrare nei  giochi (come le consiglia Tajani), scegliendo di negoziare (sotto traccia) con Von der Leyen, lasciando intendere una disponibilità del suo partito a non ostacolare l’elezione della Presidente della Commissione come contropartita di un portafoglio importante per il Commissario italiano. 

Se dovesse scegliere la linea dell’intransigenza rischierebbe prevedibili difficoltà di interlocuzione con la nuova Commissione e una marginalizzazione dell’Italia nell’Ue. Oltre al rischio di una bocciatura del Commissario italiano, in occasione dell’audizione al Pe, anche solo per motivi di schieramento politico. Se deciderà per una linea più accomodante, la clamorosa presa di posizione al Consiglio europeo del 27 giugno potrebbe essere derubricata a incidente di percorso, superabile nei fatti e privo di conseguenze di lungo periodo. Non sarà una scelta facile per Meloni, anche per i risvolti sulle dinamiche della sua maggioranza. Ma è su scelte di questo tipo che si misura la capacità di un leader di interpretare al meglio la nozione di interesse nazionale.

Stubb, l’Italia ha un posto di riguardo

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale, in visita ufficiale, il Presidente della Repubblica di Finlandia, Alexander Stubb, intrattenendolo successivamente a colazione. Stubb era accompagnato da una delegazione del suo paese, con l’ambasciatore in Italia, Matti Lassila. Era presente all’incontro il Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani.

Si tratta della prima visita ufficiale di Stubb in Italia nel suo ruolo di Presidente della Repubblica finlandese. Tuttavia Stubb stesso, negli indirizzi di saluto a Mattarella, ha ricordato la sua familiarità con l’Italia, e in particolare con Firenze, ove aveva un prestigioso incarico nell’ambito dell’Istituto Europeo. Come ha ricordato arche Mattarella, citando la partecipazione di Stubb, lo scorso febbraio, a un convegno a Firenze in onore dello scomparso Premio Nobel per la pace, Martti Ahtisaari.

Nel pomeriggio, il Presidente Stubb è stato ricevuto a Palazzo Chigi dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Nel corso dei colloqui è stata sottolineata la situazione della sicurezza in Europa e l’imminente vertice della NATO.

“L’Italia è per molti versi un fattore chiave nella sicurezza e nella politica europea”, ha dichiarato, tra l’altro, Stubb. I colloqui hanno permesso di confermare le profonde sinergie tra Italia e Finlandia nel comune quadro Ue e Nato. Sono state ripercorse le opportunità di rafforzamento delle relazioni economiche e della cooperazione in ambito sicurezza e difesa, ma anche sui principali temi dell’agenda internazionale ed europea, inclusa la gestione della migrazione irregolare. L’incontro ha costituito, inoltre, un’occasione di confronto in vista del Vertice NATO di Washington, confermando l’importanza di proseguire nel sostegno all’Ucraina e di perseguire un approccio a tutto campo in relazione alla sicurezza euro-atlantica.

Al centro dei colloqui anche uno scambio sulle principali dinamiche politiche e strategiche in corso, e sull’importanza di promuovere un modello di sviluppo e cooperazione da pari a pari verso il continente africano, nello spirito del Piano Mattei.

Il programma della visita del 3 e 4 luglio ha incluso, inoltre, un incontro con il mondo imprenditoriale e una discussione in una tavola rotonda sulla politica estera e di sicurezza presso l’Istituto Affari Internazionali, con la partecipazione della direttrice, Nathalie Tocci e del Presidente Ferdinando Nelli Feroci, alla presenza di alcuni esperti, ricercatori e soci collettivi dell’Istituto. Al centro del dibattito alcuni importanti temi di attualità per l’Europa, come la guerra di aggressione della Russia in Ucraina e le sfide alla sicurezza nel nostro continente. “L’Ucraina sta combattendo anche la nostra guerra e alla fine diventerà un membro dell’Ue e della Nato”, ha affermato Stubb. “La posizione della Cina in Russia è così forte che basterebbe una telefonata di Xi Jinping per fermare la guerra”, ha aggiunto.

Nelle parole di Stubb “l’Italia ha un posto speciale nel mio cuore. Gli anni a Firenze mi hanno insegnato a conoscere la cultura e le persone italiane. Ecco perché è stato particolarmente bello tornare qui per rappresentare la Finlandia come Presidente della Repubblica. Grazie Italia!”

Elezioni in Francia: il primo turno e l’avanzata delle destre

Il presidente francese Emmanuel Macron e i suoi alleati hanno iniziato una settimana di intensa campagna elettorale in vista del secondo turno delle elezioni legislative per impedire all’estrema destra di ottenere la maggioranza assoluta e il controllo del governo.

Il partito di estrema destra National Rally (RN) di Marine Le Pen ha ottenuto una clamorosa vittoria al primo turno delle urne domenica, mentre i centristi di Macron sono rimasti al terzo posto dietro una coalizione di sinistra. Ma l’incognita principale in vista del secondo turno del 7 luglio era se l’RN avrebbe ottenuto la maggioranza assoluta nella nuova Assemblea Nazionale, consentendogli di formare un governo e di nominare primo ministro Jordan Bardella, 28 anni, protetto di Le Pen. La maggior parte delle proiezioni pubblicate dalle organizzazioni di sondaggio francesi indicavano che l’RN non avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta, ma il risultato finale rimane tutt’altro che certo.

Un parlamento appeso potrebbe portare a mesi di paralisi politica e caos, proprio mentre Parigi si prepara a ospitare i Giochi Olimpici di quest’estate e mentre la Francia sulla scena internazionale assume un ruolo di primo piano nel sostenere l’Ucraina contro l’invasione russa. Il primo ministro francese Gabriel Attal, che probabilmente sarà costretto a dimettersi dopo il secondo turno, ha avvertito che l’estrema destra è ora alle “porte del potere”. Il RN non dovrebbe ottenere un “solo voto” al secondo turno, ha detto. “Abbiamo sette giorni per evitare alla Francia la catastrofe”, ha dichiarato Raphael Glucksmann, una figura chiave dell’alleanza di sinistra.

La prospettiva di un’Assemblea Nazionale bloccata

Secondo i risultati preliminari, il RN ha ottenuto il 33% dei voti, contro il 28% dell’alleanza di sinistra Nuovo Fronte Popolare e oltre il 20% del campo centrista di Macron. Ma con meno di 100 seggi decisi al primo turno, la composizione finale dell’Assemblea nazionale da 577 posti sarà chiara solo dopo la seconda fase. Il secondo turno vedrà un ballottaggio a tre o a due per il resto dei seggi da decidere, con il campo di Macron che spera che il voto tattico impedisca al RN di ottenere i 289 seggi necessari per la maggioranza assoluta.

Anche il mercato azionario francese, che a giugno era stato notevolmente sotto pressione a causa dell’incertezza politica, ha registrato un’impennata nelle prime contrattazioni sulla speranza che il RN non ottenga la maggioranza assoluta.

In una dichiarazione scritta, Macron ha esortato a creare una coalizione “ampia” contro l’estrema destra al secondo turno, tra le polemiche dei sostenitori sulla possibilità di votare tatticamente per la sinistra, se necessario, al secondo turno.

Domenica la polizia ha dichiarato che circa 8.000 sostenitori di sinistra hanno affollato Place de la Republique, nel centro di Parigi, per denunciare la prospettiva che l’estrema destra prenda il potere.

La società di analisi dei rischi Eurasia Group ha dichiarato che sembra ora “probabile” che RN non raggiunga la maggioranza assoluta. La Francia si trova ad affrontare “almeno 12 mesi con un’Assemblea Nazionale bloccata in modo rancoroso e, nella migliore delle ipotesi, un governo tecnocratico di ‘unità nazionale’ con una capacità di governo limitata”, ha aggiunto.

Il quotidiano di sinistra Liberation, in un editoriale, ha invitato Macron a rimuovere tutti i candidati della sua alleanza dalle circoscrizioni in cui erano arrivati al terzo posto per dare una possibilità all’alleanza di sinistra. “Il capo di Stato ha gettato la Francia sotto l’autobus. L’autobus ha continuato la sua corsa senza ostacoli e ora è parcheggiato davanti ai cancelli di Matignon”, l’ufficio del primo ministro.

Bardella e la possibile coabitazione con Macron

L’arrivo al governo dell’anti-immigrazione ed euroscettico RN rappresenterebbe una svolta nella storia moderna della Francia: la prima volta che una forza di estrema destra prende il potere nel Paese dalla Seconda Guerra Mondiale, quando era occupato dalla Germania nazista.

Bardella ha dichiarato di voler essere il “primo ministro di tutti i francesi”. Questo creerebbe un periodo di “coabitazione” con Macron, che ha promesso di portare a termine il suo mandato fino al 2027. Bardella ha dichiarato che formerà un governo solo se il RN otterrà la maggioranza assoluta alle elezioni.

È rimasto il rancore per la decisione di Macron di indire le elezioni, una mossa presa solo con una stretta cerchia di consiglieri nelle ore successive alla sconfitta del suo partito alle elezioni europee di questo mese. Il caos rischia di danneggiare la credibilità internazionale di Macron, considerato da alcuni come il leader numero uno dell’Unione europea e che subito dopo il secondo turno parteciperà al vertice della Nato a Washington. Il quotidiano di destra Le Figaro, nel suo editoriale, ha lamentato un “disastro” causato dalla “insondabile leggerezza di un uomo che, per rancore narcisista, ha corso il rischio di far precipitare il suo Paese nel caos”.

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Elezioni in Iran: astensionismo e calo del sostegno tra gli elettori

Il primo turno delle elezioni presidenziali iraniane ha rivelato una contrazione del sostegno sia per i riformisti che per i conservatori, anche se alcuni elettori stanno spingendo per un cambiamento sostenendo l’unico candidato riformista, dicono gli analisti. Masoud Pezeshkian, il candidato riformista, e l’ultraconservatore Saeed Jalili hanno guidato le votazioni volte a sostituire il defunto presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, morto in un incidente in elicottero il mese scorso.

Le votazioni, caratterizzate da un’affluenza storicamente bassa, “mostra chiaramente che le basi dei riformisti e dei conservatori si sono notevolmente ridotte”, ha dichiarato Ali Vaez del think tank International Crisis Group. In vista delle elezioni, la principale coalizione riformista iraniana ha sostenuto Pezeshkian, con l’appoggio degli ex presidenti Mohammad Khatami e Hassan Rouhani, un moderato. “I riformisti hanno tirato fuori i grossi calibri e hanno fatto del loro meglio per mobilitare la loro base”, ha dichiarato Vaez, ma “è stato semplicemente insufficiente”. Allo stesso modo, i conservatori non sono riusciti a raccogliere voti sufficienti “nonostante le enormi risorse impiegate”, ha aggiunto. Vaez ha inoltre sottolineato che i voti combinati di Jalili e dello speaker parlamentare conservatore Mohammad Bagher Ghalibaf, arrivato terzo, hanno totalizzato 12,8 milioni. Questa cifra è ben al di sotto dei quasi 18 milioni di voti ottenuti da Raisi nelle elezioni del 2021.

Dei 61 milioni di elettori aventi diritto, solo il 40% circa ha votato, segnando un record di bassa affluenza nella Repubblica islamica, dove alcuni hanno perso fiducia nel processo. Più di un milione di schede elettorali sono state annullate. Per Vaez, il calo dell’affluenza alle urne, dal 49% circa del 2021, è stato “un vero imbarazzo per la leadership” dell’Iran, dove il potere politico ultimo spetta alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.

I due candidati: Pezeshkian e Jalili

Il commentatore politico Mohammad Reza Manafi ha affermato che la candidatura di Pezeshkian riflette una spinta verso “cambiamenti fondamentali” per quanto riguarda l’economia e le relazioni con il resto del mondo. Tuttavia, i sostenitori di Pezeshkian “non si aspettano un miracolo o una soluzione rapida, ma sperano che possa gradualmente evitare che le condizioni peggiorino”, ha aggiunto Manafi.

L’Iran ha subito l’impatto economico delle sanzioni internazionali, che hanno contribuito all’impennata dell’inflazione, all’alto tasso di disoccupazione e al minimo storico del rial iraniano rispetto al dollaro statunitense. Il voto si è svolto nel contesto di un’accresciuta tensione regionale per la guerra di Gaza tra Israele e Hamas, alleato di Teheran, e di tensioni diplomatiche sul programma nucleare iraniano. Pezeshkian, un cardiochirurgo schietto che rappresenta la città nord-occidentale di Tabriz in parlamento dal 2008, ha vinto grazie alla sua “fedina penale pulita senza alcuna accusa di corruzione finanziaria”, ha dichiarato Manafi. I dati ufficiali indicano che Pezeshkian ha ottenuto il 42,4% dei voti, contro il 38,6% di Jalili. Il riformista ha sollecitato “relazioni costruttive” con Washington e le capitali europee per “far uscire l’Iran dall’isolamento“.

Al contrario, Jalili è ampiamente riconosciuto per la sua intransigente posizione anti-occidentale. È un ex negoziatore nucleare e attualmente è un rappresentante di Khamenei nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, il più alto organo di sicurezza dell’Iran. Durante la sua campagna elettorale, ha radunato una base consistente di sostenitori della linea dura con lo slogan “nessun compromesso, nessuna resa” all’Occidente. Si è opposto fermamente all’accordo nucleare del 2015 con gli Stati Uniti e altre potenze mondiali, che ha imposto limiti all’attività nucleare dell’Iran in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. All’epoca, Jalili sosteneva che il patto violava le “linee rosse” dell’Iran accettando le ispezioni dei siti nucleari. L’accordo è crollato nel 2018.

Il fattore paura di Jalili

In una rubrica domenicale del quotidiano ultraconservatore Javan, l’esperto politico Ali Alavi ha lodato “l’onestà e la veridicità di Jalili, a differenza degli altri”. Il candidato ha ricevuto anche il sostegno di Ghalibaf, che dopo il risultato di sabato ha esortato i suoi a sostenere Jalili nel ballottaggio di venerdì prossimo. Anche due ultraconservatori che si sono ritirati un giorno prima delle elezioni hanno appoggiato Jalili.

Ma domenica il quotidiano riformista Etemad ha citato l’ex vicepresidente Isa Kalantari, che ha messo in guardia da una permanenza dei conservatori al governo. “Il Paese sarà in pericolo e dovrà affrontare numerosi problemi e sfide”, ha dichiarato. Vaez ha detto che “il fattore paura di Jalili non può essere trascurato. Molti di coloro che non hanno votato in questa tornata potrebbero farlo nella prossima: non perché sperano in un miglioramento, ma perché temono il peggio”.

L’analista politico Mohammad Marandi, tuttavia, ha affermato che Jalili potrebbe non essere “il tipo di radicale che viene dipinto dai suoi avversari”. Marandi ritiene che l’Iran, con uno dei due candidati, “continuerà a perseguire forti legami con i Paesi del Sud globale”. Ha aggiunto che “cercheranno ancora di vedere cosa si può fare con l’accordo nucleare”, anche se Jalili “lo affronterà con maggiore scetticismo”.

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Un dibattito disastroso e le opzioni dei Democratici

Il recente dibattito presidenziale tra il Presidente Joe Biden e il suo predecessore e prossimo sfidante Donald Trump può aver segnato un punto di svolta nella corsa alla Casa Bianca. La disastrosa performance di Biden potrebbe costargli un margine di voti irrecuperabile. Così forte è la preoccupazione riguardo alle diminuite chance di vittoria del presidente in carica che, mentre il dibattito era ancora in corso, le voci all’interno del Partito Democratico che richiedevano una sostituzione in corsa si moltiplicavano.

Il dibattito è stato inusuale, non solo perché molto anticipato rispetto al solito (a giugno invece che settembre-ottobre), ma anche perché i due contendenti devono ancora essere ufficialmente nominati dalle convention – quella repubblicana a metà luglio e quella democratica nella seconda metà d’agosto. Anche il format non era il solito: non c’era pubblico e i candidati avevano a disposizione un tempo prestabilito per i loro interventi. Queste misure, fortemente volute dalla campagna di Biden, erano pensate per rendere il confronto più ordinato e meno caotico rispetto al primo dibattito presidenziale tra Biden e Trump nel 2020. Tuttavia, per Biden il risultato è stato disastroso.

Trump in controllo, Biden impappinato

L’obiettivo principale del dibattito era per Biden era contrastare le crescenti perplessità riguardo la sua capacità di sostenere altri quattro anni alla guida degli Stati Uniti. A 81 anni, Biden è il presidente più anziano nella storia del Paese.

Ebbene, questo obiettivo è stato mancato totalmente. Il presidente non è più di una volta riuscito a volte a esprimere un pensiero coerente, perdendo il filo del discorso in alcuni casi. Non sorprende che sia stato incapace di portare attacchi a Trump, un candidato molto vulnerabile per i suoi guai giudiziari e per un record da presidente che non è certo eccellente – basti pensare alla disastrosa gestione del Covid e al tentativo di sovvertire le elezioni culminato poi nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

Trump, al contrario, è stato disciplinato. Le regole del format lo hanno in realtà favorito, impedendogli di andare continuamente fuori binario. Inoltre, i due moderatori non hanno mai fatto fact-checking, così che ha potuto lanciarsi nei suoi lunghi sproloqui fatti di menzogne, affermazioni fuorvianti, insulti, iperboli e teorie cospirazioniste. Ma al netto dei contenuti, Trump è rimasto sempre concentrato e ha dato di sé l’immagine di un uomo energico e in controllo. Non c’è dubbio, dunque, che Trump esca vincitore da questo dibattito.

La prestazione di Biden è stata così deludente che ora si apre una fase di riflessione nel Partito Democratico riguardo la possibilità di un suo passo indietro.

Perché un ritiro di Biden è difficile

Ci sono almeno tre motivi per cui è improbabile che Biden si ritiri. Il primo è la sua convinzione personale di poter sostenere la campagna elettorale, di poterla vincere e di essere il principale antidoto alla minaccia alla democrazia che Trump e i Repubblicani MAGA rappresentano.

Il secondo sono le tempistiche: siamo a fine giugno, la convention democratica è a fine agosto e le elezioni a inizio novembre. Un cambio di candidato presidenziale così vicino alle elezioni è senza precedenti in tempi recenti. L’ultimo esempio risale al 1968, quando il democratico Lyndon Johnson decise di non ricandidarsi. Ma era a inizio anno, non a metà.

Il terzo motivo è la legittimità di una mossa del genere. Biden ha ricevuto l’investitura dalle primarie. Chi lo sostituirebbe non avrebbe la legittimità derivante dal voto popolare.

Tuttavia, nessuno di questi tre ostacoli rende impossibile l’ipotesi di un ritiro. Biden potrebbe persuadersi che sia la scelta migliore per lui, il partito e gli USA. I tempi, pur stretti, sono abbastanza ampi perché un nuovo candidato si imponga all’opinione pubblica e faccia campagna elettorale. E la questione della legittimità, sebbene irrisolvibile completamente, può essere aggirata.

Le alternative

Chi potrebbero essere le alternative? Formalmente, è la convention a eleggere il candidato alle presidenziali. Tuttavia, da oltre 50 anni, la convention è diventata il palcoscenico per l’incoronazione e non per la selezione del candidato presidenziale, compito oggi affidato alle primarie. In questa circostanza straordinaria, potrebbe però tornare a svolgere il suo ruolo originario. Tuttavia, una convention nella seconda metà di agosto reca con sé il rischio di esporre le divisioni interne al Partito Democratico senza che ci sia tempo sufficiente per ricomporle prima di inizio novembre.

Un’alternativa è una convention ‘pilotata:’ i maggiorenti del partito – il Comitato Nazionale Democratico, l’organizzazione dei governatori democratici e la leadership democratica al Congresso dovrebbero unirsi e, in accordo con l’attuale amministrazione, decidere il ticket presidenziale. Si dovrebbe trovare un’intesa su un presidente e un vicepresidente capaci di evitare divisioni interne e raccogliere il massimo consenso possibile tra i delegati del partito, specialmente di quelli alla convention, e tra l’elettorato progressista in generale.

Centrale il ruolo di Harris

Se Biden dovesse effettivamente ritirarsi, la principale candidata a sostituirlo è la sua vicepresidente, Kamala Harris. Tuttavia, Harris non è particolarmente popolare e non è considerata una politica molto capace, specialmente in campagna elettorale. Sebbene sia riconosciuta per la sua intelligenza e acume analitico, non ha dimostrato un grande “naso” politico, continuando a suscitare perplessità. Estrometterla, però, creerebbe divisioni nel partito e nell’elettorato, in particolare tra le donne e i neri, dato che è la prima donna nera a ricoprire la carica di vicepresidente. Metterla da parte ora invierebbe un pessimo messaggio.

In conclusione, o Kamala Harris viene indicata come candidata democratica alle presidenziali oppure Harris stessa decide di fare un passo indietro. In ogni caso, sarebbe necessario selezionare almeno un vicepresidente, se non addirittura un altro candidato presidenziale. A questo proposito, ci sono ipotesi del tutto speculative.

Oltre a Harris, chi altro?

Tra i nomi più discussi figurano i potenti del Partito Democratico, in particolare i governatori. Il più noto e potente tra loro è Gavin Newsom, governatore della California, lo stato più popoloso e ricco degli Stati Uniti, con una forte maggioranza democratica. Newsom si è finora dimostrato un fedele sostenitore di Biden e tentare una corsa presidenziale in circostanze tanto straordinarie sarebbe un azzardo per lui, che preferirebbe puntare al 2028

Altri potenziali candidati al ticket presidenziale sono due governatori del Midwest, regioni decisive nelle elezioni di novembre: J.B. Pritzker dell’Illinois e Gretchen Whitmer del Michigan. Whitmer, in particolare, è una politica raffinata con un certo grado di riconoscibilità nazionale. Un altro di cui si parla è Raphael Warnock, senatore della Georgia, un altro stato chiave (ma essendo nero verrebbe probabilmente escluso da un ticket con Harris).

Da ipotesi di scuola a possibilità reale

Questi sono solo alcuni dei nomi ipotizzati, ma si tratta di speculazioni. Al momento non c’è niente di certo, se non il fatto che che un’ipotesi che fino a prima del dibattito era totalmente fuori dal regno delle possibilità – il ritiro di Joe Biden dalla campagna presidenziale – è ora diventata realistica e plausibile.

Questa possibilità verrà dibattuta tra Biden e i potenti del partito, anche sull’onda di una richiesta crescente dall’elettorato progressista di una sostituzione in corsa del candidato presidenziale. La campagna elettorale del 2024 negli Stati Uniti è oggi incerta non solo per l’esito finale ma anche per l’identità di uno dei due contendenti.