Status di economia di mercato alla Cina
Seminario “Status di economia di mercato alla Cina. Rischi e opportunità per l’Italia e l’Europa”
con Rita Fatiguso, corrispondente del Sole 24 Ore a Pechino, e Romeo Orlandi, professore di economia dell'Asia Orientale, Università di Bologna e vice presidente dell’Associazione Italia-Asean
Introduce e modera Nicola Casarini, coordinatore del Programma di ricerca IAI per l'Asia
Nella sua introduzione, Nicola Casarini, coordinatore del Programma di ricerca IAI per l’Asia, ha sostenuto che il dibattito sul riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina riflette principalmente gli interessi dei vari paesi. Gli Stati Uniti continuano ad opporsi al riconoscimento e non è in vista alcun cambiamento di questa posizione, anche perché, in un anno elettorale, i politici hanno tutto l’interesse a mostrarsi duri nei confronti della Cina. La Gran Bretagna è invece favorevole perché non ha importanti industrie manifatturiere che potrebbero esserne danneggiate, mentre ha molto da guadagnare sul lato finanziario. Favorevoli al riconoscimento sono anche i paesi scandinavi e i Paesi Bassi. I paesi europei con un’economia ancora fortemente industriale, ossia Germania, Francia e Spagna, hanno assunto una posizione attendista. L’Italia è di fatto l’unico grande paese europeo che ha espresso una posizione chiaramente contraria.
Rita Fatiguso, corrispondente de Il Sole 24 Ore a Pechino, ha notato che per i cinesi il riconoscimento dello status di mercato è un atto dovuto in quanto previsto da precedenti accordi di cui il governo cinese chiede il rispetto. Negli ultimi 25 anni la Cina ha registrato un’industrializzazione a ritmi sostenutissimi, che ne hanno fortemente potenziato il ruolo economico a livello globale, ma che ha anche creato una serie di problemi la cui soluzione è stata continuamente posticipata, con il risultato che si sono incancreniti e ora devono essere affrontati con urgenza. Il primo di tali problemi è la over-capacity produttiva, soprattutto nel settore infrastrutturale. Il secondo è l’impatto ambientale dell’industrializzazione e le sue conseguenze per la salute dei cittadini. La Cina ritiene che il riconoscimento dello status di economia di mercato la aiuterebbe a smaltire la capacità produttiva in eccesso. Resta il fatto che il problema della over-capacity può essere risolto solo attuando anche processi di riconversione interna di ampia portata e che comportano ingenti costi sociali. Va notato peraltro che la riduzione della over-capacity è uno degli obiettivi anche della “One Belt-One Road”, una delle iniziative strategiche più importanti volte a rafforzare la proiezione economica internazionale del paese.
Per Romeo Orlandi, professore di economia dell’Asia Orientale all’Università di Bologna e vice presidente dell’Associazione Italia-Asean, la Cina non può essere definita un paese ad economia di mercato in base agli standard comunemente accettati. In effetti l’economia cinese fa leva in misura considerevole sugli aiuti di stato alle imprese e la pratica del dumping è molto diffusa, come pure la violazione della proprietà intellettuale. Oggettivamente la Cina non può quindi essere classificata come un’economia di mercato. Ma allora perché se ne discute? Perché non le si dice semplicemente no? La questione ha un duplice risvolto: a) legale: in base agli accordi in vigore l’Europa non avrebbe in effetti il diritto di negare il riconoscimento; b) politico: alcuni paesi hanno tratto e traggono vantaggio dall’entrata della Cina nell’Omc mentre altri ne sono stati fortemente danneggiati. I primi vorrebbero quindi favorire un maggiore e più strutturato inserimento della Cina nella comunità economica e commerciale mondiale, i secondi invece vi si oppongono.
La Cina, che importa beni di lusso, materie prime e beni strumentali e tecnologici, è diventata la “fabbrica del mondo”. Le multinazionali la adorano: grazie al bassissimo costo del lavoro e ad alcune agevolazioni fiscali molte hanno delocalizzato in Cina importanti settori della loro produzione, ottenendo ingenti risparmi sui costi di produzione. Il paese che in assoluto è stato più colpito da questa trasformazione è proprio l’Italia. Anzitutto perché, come la Cina, importa materie prime e la sproporzionata crescita della domanda cinese ne ha fatto, per un lungo periodo, lievitare i prezzi. Rispetto ad altri paesi europei (Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna) l’Italia ha inoltre una produzione relativamente più orientata verso i beni di consumo, e questa specializzazione un po’ eccentrica è in chiara concorrenza con il gigante cinese. Perciò il governo italiano si è finora opposto fermamente alla concessione dello status di economia di mercato alla Cina (presumibilmente, anche per ragioni elettorali). L’Italia è però isolata a livello diplomatico. Con la sua galassia di piccole e medie imprese, l’Italia è inoltre un boccone appetibile per i capitali cinesi. Le sue aziende di dimensione limitata hanno difficoltà a competere sui mercati globali, ma vantano spesso tecnologie e know how invidiabili, che le aziende cinesi sono interessate ad acquisire. La Cina, che non vuole più essere una “ciminiera grigia”, ha bisogno di innalzare il livello qualitativo della produzione, ma un processo di sviluppo interno di queste capacità sarebbe troppo lento. Acquisire know how all’estero tramite investimenti mirati consente di abbreviare i tempi. L’Italia può chiudere la porta alla Cina e ai suoi capitali, ma così non farebbe che rimandare un destino che sembra inevitabile per le piccole aziende (“small is not good” nell’era della globalizzazione). Per questi motivi, all’Italia non conviene tenere una posizione troppo rigida, ma puntare ad ottenere il massimo delle concessioni in sede negoziale, anche perché è molto probabile che alla fine l’Ue conceda il riconoscimento. Il problema è che per negoziare in maniera vantaggiosa bisogna essere forti ed uniti e al momento l’Europa non è né l’una né l’altra cosa.
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